Di Italiano alle Canarie

Un sistema denunciato dalle ONG

Rapporti pubblicati da Prisoners Defenders e da altre organizzazioni internazionali hanno acceso i riflettori su una realtà che non può lasciare indifferenti: nelle carceri cubane migliaia di detenuti vengono costretti a lavorare nella produzione di carbone vegetale destinato all’esportazione. Secondo i denuncianti, si tratta di una forma di schiavitù contemporanea, riconosciuta anche dalle Nazioni Unite come pratica da indagare.

Dietro il marchio «marabú»

Il carbone di marabú, venduto in Spagna a un prezzo compreso fra 2 e 4 euro al chilo e spesso etichettato persino come “ecologico”, ma nasconde un’ombra pesante: turni massacranti, compensi simbolici (quando esistenti), assenza di contratti e condizioni igienico-sanitarie precarie. Le testimonianze raccolte dalle ONG parlano di privazioni, punizioni arbitrarie e violenze.

Voci dai campi di lavoro

I detenuti raccontano di dormire su balle di paglia, di bere acqua contaminata, di lavorare con ferite infette senza alcuna assistenza medica. Le conseguenze sono devastanti: tubercolosi, ipotiroidismo, ansia cronica e disturbi post-traumatici. Cuba, nel frattempo, continua a ricavare decine di milioni di dollari l’anno dal carbone esportato, collocandosi tra i principali produttori mondiali.
Ci si può allora chiedere: dove finisce questa montagna di denaro, se il Paese versa in una condizione di precarietà cronica, tra carenze alimentari, blackout energetici e servizi pubblici fatiscenti?


La Spagna, primo mercato

La Spagna è il principale acquirente. Aziende importatrici — alcune persino con marchio “bio” — operano in diverse regioni del Paese, da Toledo a Valencia. I profitti si concentrano in alto, mentre i detenuti, secondo le denunce, arrivano a guadagnare meno di cinquanta centesimi per tonnellata prodotta. La gravità del fenomeno è stata riportata anche da testate nazionali come El Español e ABC, che hanno evidenziato il ruolo centrale del mercato spagnolo.

Donne e violenza

Il capitolo delle donne è ancora più inquietante: costrette a mansioni degradanti e, in alcuni casi, vittime di molestie e violenze sessuali mai indagate. L’assenza di protezione rende questo sfruttamento un ulteriore insulto al concetto stesso di diritti umani.

Una domanda che brucia

Le denunce delle ONG sono chiare, anche se i numeri esatti restano difficili da verificare. Ma la sostanza non cambia: dietro ogni barbecue acceso in Spagna o in Italia con il carbone di marabú potrebbe esserci la fatica e la sofferenza di un prigioniero. Oltre a Euronews, anche testate come El Español, ABC e persino agenzie internazionali come EFE hanno rilanciato la vicenda, sottolineando il paradosso di un prodotto presentato come sostenibile ma legato a una filiera di dolore.

L’ipocrisia occidentale

Il carbone marabú non è un semplice prodotto da scaffale: è il simbolo di una catena che intreccia consumi occidentali e sfruttamento silenzioso. Questo brucia non solo nei bracieri, ma soprattutto nella coscienza di chi continua a ignorare ciò che si cela dietro il marchio «ecologico».

Lo stesso paradosso si ritrova nella filiera dell’elettrico: presentato come verde e pulito, ma segnato da estrazioni minerarie che generano sfruttamento, inquinamento e morte. Due facce diverse dello stesso falso ecologismo che il mercato occidentale preferisce non vedere.

Domanda finale

Qualcuno mai si indignerà o scenderà in piazza dopo aver appreso queste notizie? La risposta già la conosciamo: è un sonoro NO!